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Viaggio nel Labirinto di Dalì: visita al Teatro Museo di Figueres

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Salvador Dalì è un artista difficile da etichettare, ed è forse questa la sua caratteristica più peculiare, questo il lascito che ha voluto dare ai posteri.

Entrando nel suo teatro-museo a Figueres, inizio il viaggio in quel labirinto che egli stesso aveva definito “un museo assolutamente teatrale” e “l’oggetto surrealista più grande del mondo”. Cerco di capire, ma ho la sensazione che sempre mi stia sfuggendo qualche cosa. Sono abbastanza sicura che questo fosse l’intento dell’artista: raccontarci il suo pensiero, il suo mondo, il suo stesso modo di vedere la vita, ma, come tipico del surrealismo, attraverso un linguaggio fatto di simboli, di giochi, di significativi nomi delle opere e della loro disposizione. Nonostante sia un tipo difficile da etichettare, attraverso gli anni, una cosa di Dalì l’ho capita: era un tipo plateale, che faceva le cose in grande e fino in fondo, non uno da tirarsi indietro ecco. Dopo questa visita però, ho iniziato a intravedere, attraverso le sue opere, tutta la semplicità che c’è nel significato della vita e credo che egli avesse ben chiaro che essa è tanto complessa quanto elementare, tanto materiale quanto immateriale, duale quindi.

Quale posto migliore per questo personaggio tanto drammatico, che l’antico teatro di Figueres, per racchiudere in un solo luogo tutta la sua metamorfosi e il suo percorso d’artista e di uomo?

Il Teatro-Museo Dalí si trova nella città natale del pittore, Figueres, ed è stato progettato e creato proprio da Salvador Dalí tra il 1961 e 28 settembre 1974, giorno dell’inaugurazione, sulle rovine di quello che era l’antico teatro municipale della città, distrutto in un incendio nel 1939.

All’interno  troviamo diversi spazi che ci immergono in una narrazione non del tutto temporale, ma che comunque segue un filo, quello della crescita e della coscienza dell’artista che si sviluppa, rielaborando i temi della vita, dell’arte e dell’amore. Possiamo subito renderci conto che Dalì era un grande sperimentatore e che intendeva l’arte come uno sguardo a 360°, applicabile a tutti i mezzi espressivi e a tutti i campi della vita.

Nella prima sala, oltrepassato il fastoso cortile con una Bentley ed una barca sgocciolante in cima, ci sono dipinti in cui notiamo le influenze di tante correnti artistiche e pittori durante la sua gioventù: cubismo, impressionismo, Optical art, surrealismo, Matisse, Raffaello Sanzio, De Chirico, Mirò, Picasso. Continuando il viaggio attraverso tutte le sale troviamo sculture, elementi scenografici e  teatrali, marionette animate, arte con oggetti riciclati, assemblage, istallazioni, una collezione di gioielli.

Quello che sorprende è l’incredibile contemporaneità delle sue opere e dei tanti  “elementi del futuro”, ovvero tutti quegli elementi che hanno influenzato artisti successivi come Pistoletto, le istallazioni contemporanee, l’arte punk e molti altri.

Passeggiare in questo museo-labirinto è come fare un viaggio temporale quantico, dove passato e futuro succedono contemporaneamente, si sovrappongono e il tempo quasi non esiste. Credo che anche questo Dalì lo sapesse bene, sapeva che sperimentando fino in fondo, dando vita a tutte le possibilità creative immaginabili, avrebbe lasciato un patrimonio talmente vasto in termini di contenuto, da indirizzare tantissime delle correnti contemporanee e risultare oggigiorno ancora attuale.

Questa sensazione di atemporalità si ritrova in molte delle sue opere. A parte tutti i paesaggi metafisici e sospesi, anche la ripetizione della simbologia dell’atomo, che si scompone, che fluttua, che crea molecole e dna, ci racconta quanto la vita sia costituita da una formula primaria tanto semplice (ed anche l’uovo è un simbolo tipico) da mettere in moto meccanismi composti complessi. Il tempo in fondo è una invenzione e l’immortalità non è altro che la mancanza di tempo e di spazio, la sospensione nell’infinito universale. Dalì puntava a questo, e a questo  è arrivato con il suo museo-teatro. La sua opera “Dix recettes d’immortalitè”, questa valigia d’orata con chiave e telefono, sembra quasi una macchina del tempo, con all’interno la molecola del dna, che appoggia su due figure geometriche quasi a simboleggiare l’universo, la creazione: uno scrigno del tesoro della vita.

L’impatto di quest’opera, con il suo sfarzo ed eccentricità,  è ancora maggiore soprattutto per la sua posizione all’interno del museo, ovvero subito dopo la Sala Palazzo del vento, dove si trova il maestoso dipinto sul soffitto. Qui Gala e Dalì giganti, visti dal basso, circondano la terra e ci sovrastano, quasi una rappresentazione divina dell’amore che sorregge il mondo, una racconto metafisico, che ci fa capire quanto l’arte possa essere un motore potente per trasformare ciò che è materiale in qualcosa di spirituale e viceversa, un oggetto che tocca l’anima e fa vibrare lo spirito, un viaggio che inizia qua ma arriva al di là di questo mondo.

Il legame tra queste due opere è impattante e il viaggio si fa davvero metafisico: un soffitto pieno d’amore e religiosità che ci fa toccare il cielo, una cassaforte con la formula della vita. Tra di loro passiamo davanti al quadro di Gala scomposta in atomi fluttuanti in movimento. L’immensità che si scompone, l’immensità composta da piccole parti, l’immensità è come un piccolo atomico tesoro.

L’amore per Gala è uno dei perni attorno a cui ruota l’arte daliniana, questa musa delicata, più volte presente nelle sue opere, studiata nello scorrere del tempo, scomposta in atomi, ripresa di spalle, rappresentata in una gigantografia affissa nell’ex palcoscenico del teatro- museo. Tante storie ho sentito negli anni sulla relazione tra Gala e Dalì ma realmente l’unica verità che emerge dal suo museo-teatro è un profondo amore e devozione verso questa donna; un amore così universale da accogliere e lasciare libera espressione tra le parti, un percorso di vita, un fuoco che produce energia e forse ammalia quell’uomo fragile nascosto dietro il personaggio eccentrico, e di cui, chissà, tutte le leggende potrebbero essere verità.

Uscita da questo mondo incantato mi chiedo se stessimo ancora ragionando in termini di surrealismo o se Dalì avesse superato questa corrente artistica e fosse arrivato ben aldilà di qualsiasi significato e definizione. Lui stesso dichiarava “Il surrealismo sono io” , perché aveva fatto della sua vita un’opera surrealista. Credo che con questa affermazione egli volesse spiegare la quantità di gesti impulsivi ed estemporanei che lo facevano sentire al di sopra della realtà, gli facevano sentire di riuscire a ingannare il tempo e di riempire la vita con effetti speciali, mentre molti lo etichettavano come un bizzarro e ne erano infastiditi.

La sua ambiguità politica, i suoi gesti di servilismo a Franco o i suoi dipinti in cui nomina Hitler, il suo sfarzo, lo resero bersaglio di tante chiacchiere, ma io credo che tutto ciò fosse il suo modo per attaccare a sua volta e dimostrare la sua totale distanza dalla realtà e dalla società. Il suo mondo era un altro, lontano da ciò che è imposto, dall’etichetta di “bene” e “male”, il suo mondo è surreale, possibilità infinita e gioco, sfida continua del possibile e del permesso. Potremmo anche pensare che per altri versi la fragilità di Dalì, lo facesse approdare sempre nei porti sicuri, così legato al lusso e al benessere, da fare e dire di tutto pur di salvarsi. Nel suo mondo comunque, la verità non è univoca: la dualità è surrealista.

Parlando del fenomeno Dalì con altre persone, la domanda che spesso mi pongo ed ho posto agli altri è: si può dividere l’arte dall’artista? L’opera dalla persona che l’ha creata?

In molti credono di si, anzi, che sia necessario guardare all’arte senza guardare all’artista, poiché l’arte dovrebbe superare il tempo e parlarci intimamente perché noi siamo il filtro che la osserva.

Un’opera dovrebbe essere a prescindere dal suo creatore, non giudicata nella forma in cui si giudica una persona, perché il bello esprime se stesso. Mi sono convinta.

Credo però infine, che nel caso Dalì sia vero l’opposto, e invece, che egli cercasse proprio questo:  vincolare l’arte alla sua persona così da raggiungere il luogo dell’immortalità. Voleva che il suo nome venisse prima delle sue opere, che la sua storia e la sua identità facesse rumore, tanto quanto i sui quadri richiamano al silenzio, alla riflessione e all’osservazione minuziosa.

Immortalità non è per lui poter essere ricordato attraverso le sue opere, ma è essere presente e parte di tutto nonostante il tempo e lo spazio, e così continuiamo a ricordarci di lui nelle opere degli artisti di oggi; e così ci ricordiamo di lui nello stile di un paio di baffi e in tutti i simboli che ha disseminato lungo il suo cammino.

Nota: Tutte le immagini delle opere di Dalì appartengono alla Fondazione Gala-Salvador Dalì  i cui diritti dono riservati, pertanto le opere di Dalì non possono apparire sulla nostra piattaforma. Nonostante ciò, continuiamo a credere nella libera fruizione della cultura e a sostenere tutti quegli artisti che ci permettono di amare e avvicinarci all’arte.

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