Artisti

Apri, attendi, accetta e taglia: il dolore come Lucio Fontana

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E io che volevo solo far entrare un po’ di luce.

Sono stato frainteso come creatore di dolore, tagli

Imperfezione

Concetti come l’arte e la vita devono mischiarsi l’uno con l’altro perché è inutile continuare a tenere distanza tra opera umana e umano stesso. Vita è arte (energia creatrice – sessuale), chi lo aveva detto? Per questo l’arte più interessante è quella che parla di vita, che dipana le diverse esperienze, raccontando particolari, curiosità, punti di vista.

Quando si racconta e immagina la vita è necessario rifiutare l’idea di una perfezione da raggiungere (per rispondere a questo tipo di aspettativa l‘unica arte a cui potremmo rifarci è quella del cinema). L’Errore è il marchio di fabbrica dell’essere Umano, l’inciampo in cui tutti siamo caduti prima o poi: valutazione superficiale, fretta,  paura, rabbia, ricerca incessante di sicurezza e controllo, scelte sbagliate. Non ditemi che non avete mai fatto nessuno di questi sbagli?

Apri: nuova prospettiva da cui vedere

Quando cadiamo ci feriamo più o meno intensamente e siamo portati a giudicare quella caduta, a ritenere l’errore una colpa a causa delle aspettative che abbiamo verso di noi e verso gli altri. La ferita è in realtà il luogo da cui si vede la verità, con cui smettiamo di rifugiarci nell’illusione della perfezione (che se fosse tale non dovrebbe fare male) e guardiamo cosa è rotto: ci guardiamo attraverso e guardiamo noi stessi.

Fontana tagliava con la consapevolezza di rompere, aprire, squarciare perché distruggere è spesso l’atto creativo più forte, tanto più in una società dove, fin da piccoli, veniamo immersi in un sistema di credenze e modelli fortissimo, impregnante. Non a caso Fontana nel 1963 diceva nell’intervista a Nerio Minuzzo:

“I critici mi hanno sempre malmenato, ma io non me ne sono mai preoccupato, sono andato avanti lo stesso e non ho mai tolto il saluto a nessuno. Per anni mi hanno chiamato ‘quello dei buchi’, con un po’ di commiserazione anche. Ma oggi vedo che i miei buchi e i miei tagli hanno creato un gusto, sono accettati e trovano perfino applicazioni pratiche. Nei bar e nei teatri si fanno soffitti a buchi. Perché oggi, vede, anche la gente della strada capisce le nuove forme. Sono gli artisti, purtroppo, che capiscono meno”.

Quando Fontana parla di gente di strada, rievoca l’immaginario dell’imperfezione, dove il buco è una forma come un’altra in cui si manifesta il divenire della vita. Non ha paura dello sporco, né della natura violenta dell’atto creativo: lancia del catrame sulla scultura di un uomo in gesso e la chiama “Uomo Nero”.

Anni dopo, il taglio diventa conquista dello spazio, come superamento della pittura e della scultura, attraverso una nuova spazialità che le contiene entrambe: squarcio alla verticalità in favore di un passaggio che attraversa.

Questa palpitazione, inspirare ed espirare della tela, ricorda da lontano, in una versione più pulita e borghese, il lavoro che Gina Pane avrebbe fatto poi sulla sua pelle: il gesto è comunque il protagonista immortale in quel contesto dove l’arte è destinata ad essere distrutta; la ferita e il taglio sono cammino, confine e scambio. Proprio l’artista apre in due la tela e ne dichiara la finitezza; i buchi diventano buchi neri che danno profondità e ci fanno percepire l’infinito che mai potremo conoscere.

Attendi: cose nuove che ancora non conosciamo

Fontana i tagli li chiamava Attese, ovvero le aperture da cui scaturiranno cose nuove e diverse che ancora non conosciamo.

Quando sbagliamo, quando ci feriamo o feriamo l’altro, abbiamo un tempo di attesa prima della reazione. Prima lo shock del fallimento da superare, dopo, capire che strada intraprendere per rimediare; poi aspettiamo le conseguenze di quella frattura, di quello sbaglio, che effettivamente potrebbe in realtà essere una nuova e grande risorsa, soprattutto quando ce ne assumiamo davvero la responsabilità.

In pochi comprendevano (e comprendono) questa filosofia, perché costantemente giudicanti su come la realtà e l’essere umano dovrebbero essere, troppo abituati alla bidimensionalità della tela. Continuiamo a difendere a spada tratta le pratiche giuste, il modo giusto di apparire e di stare in società, tanto che ricorriamo a degli standard che finiscono per definire la Normatività.

Niente di più incoerente. Convinti di sapere tutto, applichiamo il nostro metro di giudizio a qualsiasi altro organismo ed ecosistema del mondo, ma in realtà lo stiamolo guardando da un punto di vista ristretto e parziale, che non ha niente a che vedere con la realtà: Antropocentrismo, ma anche personali interpretazioni dell’altro che quasi mai sono quelle giuste.

Accetta: nessuna perfezione in senso assoluto.

Questo discorso vale anche per questa società che ci vuole migliori a tutti i costi, senza riflettere sul fatto che forse, piuttosto che alzare gli standard, dovremmo imparare ad accettare di più quello che è, così com’è. Accettiamo il dolore? Accettiamo la morte? Accettiamo i corpi? Accettiamo la diversità? Ma soprattutto, dopo aver accettato, riusciamo a dignificare?

Molto spesso no; ricorriamo all’invisibilizzazione di ciò che non coincide con la “perfezione” del nostro piccolo pianeta o universo personale. Ci fa scandalizzare, arrabbiare, disgustare, allontanare, evitare e così manifestiamo proprio quell’ imperfezione che in realtà siamo, ma che rifiutiamo di accettare.

Conoscere i propri limiti è importante, come anche rendersi conto dell’interconnessione tra tutto ciò che è il sistema mondo: o siamo TUTTI messi nelle condizioni di dare il meglio oppure non esiste gara né sforzo che valga, se non al fine di alimentare disparità. Va bene, per carità, che alcuni dopo tanto impegno ce l’hanno fatta, come quelli che hanno avuto tanta fortuna.  Ma nel contesto più ampio, allargando sempre un po’ di più i confini, sarà “una perfezione” in un contesto “imperfetto”; nessuna “Perfezione” in senso assolutistico.

Questa potrebbe mai esistere?

Taglia: fai entrare la verità

Possiamo dire che Fontana ci ha provato, perché sin dal principio ha rifiutato le vie facili del successo, preferendo sperimentare lo sconosciuto e l’incerto, cioè: abbandonando la pretesa di essere quello giusto, ha seguito la via della ricerca che lo ha portato a dipanare alcune verità.

Per me, e il mio personalissimo pensiero, Fontana è quello che squarcia il velo e fa passare la luce, anche se dietro ai tagli metteva vele nere oscuranti. Artista dell’arte spaziale e tra i precursori di quell’arte intesa non solo come opera ma come gesto, gestualità, intorno e conseguenza dell’azione sullo spazio, performance come attivazione di una narrazione, di cui molto si pratica oggi.

A mio parere i suoi tagli illuminano tutto questo, aprendo nuove prospettive all’arte, nuovi punti di vista sul mondo e anche nuove domande. La ferita per questo, è altro oltre il dolore: la ferita evidenzia la mortalità, la brevità, l’incertezza e la fragilità. La ferità ci fa domandare, ci mette in discussione e questa pratica  è molto importante per rimanere con i piedi sulla Terra. Per quanto sia difficile soffrire e per quanto, in una narrazione perfetta dell’esistenza sarebbe fantastico (e giusto) imparare solo attraverso rafforzamenti positivi, finché come società non saremo disposti a evitare la sofferenza dell’altro tanto quanto la nostra, siamo condannati all’irrisolto e a vivere in una realtà non compiuta. Quindi godiamoci il cinema e il suo lieto fine, la sua perfezione così scontata e che erroneamente finiamo per prendere come modello di vita, perché le arti visive invece son figlie della sofferenza, e qualsiasi artista, per raccontare un pezzo di verità, è dovuto passare attraverso la ferita.

Epilogo/epitaffio:

Io ti riconosco come in me dimorante e tra le pieghe della rabbia, dei giudizi, delle illusioni e del girare la testa, io continuerò sempre a riconoscerti. Riconosco il dolore che ci abita e lo onoro, lo rispetto e sono qui, lo spazio è per noi aperto, anche se non avremmo la resistenza per starci.

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