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Questa volta ho deciso di fare la brava, giocando di precisione e prevedibilità, rimanendo sui binari della tradizione con cui si “critica” l’arte.
Che alla fine, perché sforzarsi di essere innovativi, in un paese dove la maniera di fare, presentare e parlare di arte, è ancorata a delle modalità morte, didascaliche e troppo spesso “accademiche”?
Stiamo ancora parlando di arte in termini di oggetti inermi che vengono osservati?
Le poche cose di aspirazione contemporanea che ho visto in ambito pubblico ed istituzionale negli ultimi tempi, puntavano sulle opportunità di un’arte Instagrammabile, il che mi sembra fuorviante; per il resto, il campo artistico è ancora costellato di stereotipi e luoghi comuni vecchi di anni, dove per esempio il nome dell’artista vale più del suo operato. Non è questo il tempo per affrontare certi discorsi, ma mi risulta sempre più chiaro che il concetto di arte si stia trasversalmente ampliando e modificando, con dei confini sempre meno tangenti e definiti. Questo è meraviglioso, sempre quando si riesca a mantenere viva l’opportunità pulsante che un’opera regala di ampliare lo sguardo. L’arte è capace di smuovere chi la osserva, impatta sull’osservatore; invece sempre più spesso si adatta il fare artistico e la sua curatela a schematizzazioni e format funzionali alla fruibilità del pubblico, da cui una deriva verso l’approssimazione e la ripetizione. Più che altro, invece di mostrare cose diverse, si ripete ciò che rassicura il pubblico: lo si culla nella sua masturbazione di sentirsi culturalmente elevato, perché conosce ed osserva ciò che ha visto ed osservato da sempre, ciò che è riconosciuto dall’élite e dal mercato dell’arte. Inoltre, grande influenza sulla narrazione artistica in Italia oggi è data dall’estrema confusione tra estetica (dal gr. αἴσϑησις «sensazione», «percezione», «capacità di sentire», «sensibilità») ed apparenza (ciò che appare, che si mostra alla vista; quindi aspetto, e anche contegno, comportamento esteriore). Significati diversi che portano a narrazioni e drammaturgie diverse, quando si tratta di voler comunicare ad un pubblico.
Ma senza divagare, oggi mi sono sfidata a voler essere tradizionalista, che altrimenti passo sempre per quella strana, e ho deciso di fare l’analisi di un quadro, una delle mie opere preferite: la “Joie de vivre” di Henri Matisse.
1906, olio su tela, 176,5×240,7 cm, conservato presso la Barnes Foundation a Filadelfia.
Incominciamo dal titolo, che in quest’opera, come in molte altre, è il perno narrativo che permette lo scambio emotivo tra l’osservatore e l’artista. Le parole sono importanti: nominare le cose è la capacità di saperle reali, presenti e così accade nell’arte, dove il titolo di un’opera è spesso il ponte che permette l’avvicinamento. Infatti, al contrario, accade a volte che l’”arte”, piuttosto che unire diverse prospettive, crei distanza e incomprensione. Non si tratta di demonizzare le sensazioni meno piacevoli, perché anche provare il rifiuto verso un’opera d’arte ne conferma la sua capacità di trasmissione; si tratta invece del tipo di sensazione: sentirsi distanti non permette uno spazio riflessivo; se non si trova un terreno comune tra l’io che osserva e l’opera, allora non esiste scambio e forse neanche arte.
Invece, quando un artista ha ben chiaro dove vuole posizionare il suo pubblico, riesce a dare l’input adatto per generare questo spazio riflessivo.
La “Joie de vivre” è un titolo molto convincente, perché stimola un ampio respiro e genera immediatamente delle domande: il quadro parla di vita umana e mi chiede “dove risiede la gioia?”. Il colpo da maestro di Matisse è quello di giocare in velocità ed usare la semplicità di immagini, segni e anche significati per rispondere ad una domanda filosofica importante e densa. Non è didascalico ma invece è spiazzante, perché arriva al cuore dell’esistenza, levando allo spettatore ogni dubbio. Il titolo è già spazio riflessivo.
Corpi selvaggi, spogliati da qualsiasi identità ed etichetta. Corpi liberi nell’esprimere i modi più naturali del rapporto tra umano e natura. Feci, abbracci, balli e musica. È davvero così facile ritornare all’essenziale? Certamente e, quando lo si capisce, il mondo cambia colori e l’energia fluisce tra gli esseri senza distinzioni di sorta. La magia dell’unione risiede nella comunicazione attraverso il piacere, questa è gioia ed anche il senso più estremo della vita. Non voglio parlare di ritorno al “primitivismo”perché non credo che esista questo distacco: siamo esseri umani e tutto ciò che concerne il corpo ci appartiene. Pensare che questo sia stato vero solo in un lontano passato, ci ha portato a credere che l’evoluzione risieda tutta nell’intelletto e a scindere la mente dalla materia: ciò che proviamo da quello che facciamo. Matisse invece, con i suoi tratti fluidi e sinuosi, unisce diversi personaggi in un’unica composizione e ci restituisce varietà: libertà di essere in campo aperto, libertà di puntare alla gioia come missione di vita, ognuno a suo modo, nell’unione e nella condivisione di spazio, corpo e spirito. Accettazione.
I colori sono quelli della meraviglia e del sublime, della delicatezza e della leggerezza. Del sole che illumina e dell’ombra che rinfresca, del mare che muta e della pelle che cambia colori ed umori. Nelle tinte surreali e naturali, Matisse riesce ad unificare tutto senza lasciarsi sfuggire niente: rosso passionale, marrone terreno, verde armonia, rosa pelle, giallo luce, indaco e viola mistici. Arcobaleno, spettro naturale dell’umano, della luce e delle emozioni; sono tutti li, insieme, mescolati sulla tela creando un’immagine che è movimento.
Nell’opera ci sono tanti riferimenti ad altri artisti, sia nello stile che nella composizione. Mi piace pensare che Matisse, piuttosto che omaggiare, abbia voluto unire dentro lo stesso quadro artisti ed opere diverse. Come a voler dire: “la gioia di vivere è nello stare insieme, noi tutti, artisti e opere, umani e natura, arte e vita.” Ecco quindi le bagnanti e le donne distese sull’erba, una spiaggia tropicale e tanti corpi in contatto: Gauguin, Cézanne, Tiziano e Manet; eccoli brillare ognuno sul suo pezzo di scena, tutti insieme a farsi compagnia, in quella danza su tela che è la vita.
Grazie Matisse, per averci lasciato un’opera che è molto più di un oggetto inerme, ma che invece respira, provoca, brilla di luce propria e forse illumina di ispirazione altri esseri umani.
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