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In questo nuovo articolo, vorrei provare a raccontare la mia esperienza in uno dei paesi più belli, ricchi e culturalmente vivi del mondo e vorrei farlo attraverso il racconto di uno dei musei più interessanti, formativi ed importanti in cui sia mai stata (due volte).
Per citare l’ultimo articolo che ho scritto sul Met Museum (pubblicato qui), se il Museo Nazionale di Antropologia di Città del Messico venisse distrutto, sarebbe un’enorme perdita storica, poiché salterebbe un importante collegamento con il mondo preispanico e con le radici stesse di questa vasta e variegata nazione: Il Messico.
Ho viaggiato abbastanza in Messico e ho sempre cercato di raccontare le mille sfaccettature di questa terra, schivando il più possibile rappresentazioni stereotipate e riduttive. Tutti, ma proprio tutti, mi hanno chiesto quanto sia pericoloso viaggiare in Messico e quanto io mi senta sicura di farlo, parte del tempo sola. Ogni volta mi rendo conto che quello che le persone sanno del Messico, si riduce a notizie sui Narcotrafficanti e sulla povertà.
In pochi mi chiedono dell’incredibile biodiversità presente, della ricchezza folclorica, della disponibilità delle persone. In pochi sanno che tra il 2010 e il 2013, l’uomo più ricco del mondo era il messicano Carlos Slim Helú, allo stesso modo in pochi sanno che Città del Messico vanta circa 150 musei, praticamente alla pari della città di Roma. (dove ce ne sono attualmente circa 160, secondo il sito web del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo.)
Attraversando i Boulevard
Per arrivare al Museo Nazionale di Antropologia si passeggia per Avenida paseo de la Reforma, il grande viale alberato che ricorda tanto un boulevard parigino e che costeggia il bellissimo parco Bosque de Chapultepec, il polmone verde della città, simile un rigoglioso e affollato parco londinese, con tanto di pagoda, laghetto e tante attività per i visitatori. Ad annunciare l’entrata al museo, si trova una statua monolitica originaria probabilmente del periodo teotihuacano, perfetta introduzione a ciò che ci aspetta all’interno e perfetta metafora di come ancestralità e modernità si fondano perfettamente in questa città.
In questa stagione è la fioritura della Jacaranda: la città è piena di chiome viola che fanno vibrare il paesaggio e i marciapiedi si riempiono di petali dello stesso colore. Anche all’entrata del Museo ci aspetta uno di questi incredibili alberi. Una maestosa Jacaranda si staglia in contrasto con le mura bianche del museo, giocando con la luce e con le ombre.
Il percorso museale
Pagando 85 pesos, si inizia il lungo e denso percorso museale composto da 44000 m² coperti, distribuiti in più di 20 sale.
Nella la sala introduttiva, la narrazione parte dalle radici del genere umano: migrazioni attraverso il continente americano, soluzioni per la sopravvivenza, sviluppo delle relazioni e delle prime forme di organizzazione sociale, creazione di manufatti; cose che univano le tribù, stili adattativi che si sono andati programmando tra individui e negli individui.
Molti modellini sono usati per illustrare la quotidianità rupestre: caccia, vita intorno al fuoco, raccolta delle piante e adattamento al clima, alla flora e la fauna. Come in ogni grande evoluzione, anche l’essere umano è partito dal basso: la vita consisteva nel rispondere ai bisogni primari; istinto, prova ed errore, apprendimento. Questo è il museo in cui storia, arte e antropologia sono indissolubilmente legate e la loro unione è un memorandum sulla fragilità della vita umana.
Veniamo sommersi dalla capacità narrativa messicana, che possiede tocchi di minuziosità, tanto nell’arte , quanto nella cultura popolare e nell’espressività delle persone. Messico è dove si festeggia la morte y se va a chingar la vida (letteralmente fottere). Questa è anche l’energia intrinseca nell’opera d’arte che sancisce il passaggio dalla prima sala a quella dell’era preclassica: una video installazione olografica di fotografie sovrapposte, dove al nostro passaggio, possiamo vedere diversi volti umani (identità, caratteristiche fisionomiche), trasformarsi nel loro stesso scheletro (sostanza, uguaglianza, materia); ancora la morte e la vita intrecciate inestricabilmente. L’ autore non è dichiarato, ma sono molto curiosa di scoprirlo.
Theotihuacan
La Sala Theotihuacan è un tesoro di informazioni e manufatti. Governata da Quetzalcóatl, il serpente emplumado (piumato) e dalla faccia del dio Sole scolpita nella pietra, racconta di una città sviluppatasi tra il 100 a.c. e il 250 d.c, e di una civiltà rimasta attiva fino al 550 d.C circa, all’ombra di una piramide enorme, la terza più grande al mondo, quella del Sole, che insieme a quella della luna, troneggia nel sito archeologico omonimo (Teothiuacan), a 40 km da Città del Messico. Questo luogo, caratterizzato dalle imponenti costruzioni, emana un’energia mistica, misteriosa e assertiva, possibile solo in una civiltà primitiva. Theotihuacan era tra i più grandi centri urbani delle Americhe precolombiane, con una popolazione stimata di oltre 125.000 abitanti dei gruppi etnici Nahua, Otomi o Totonachi, che convivevano in un presunto stato multietnico. La sua arteria principale è La calle de los Muertos (via dei morti), che ne scandiva il tempo sociale e religioso. Era forse uno stato pacifico, o forse il più assertivo della zona a livello economico, e per questo gli Atzechi lo presero come modello per la creazione della loro città stato nel 1325.
Entrare in contatto con i manufatti di Teotihuacan, mette le basi per capire alcuni capisaldi del Messico, anche contemporaneo. Il mais, il sole, il cacao; le maschere rituali, gli Animali protettori e la morte; tra bracieri e oggetti creati con le conchiglie riconosciamo forti rituali sociali, per prime, le modificazioni corporali (come la deformazione del cranio, fori e dilatazioni, incisioni dentali, tagli e tatuaggi).
Riconosciamo i simboli di potere e di empoderamento (potenziamento) nelle entità naturali che sostengono la vita e l’esistenza di forti pratiche che univano indissolubilmente l’umano al cosmo, e quindi al divino. Secondo il culto di Tlàloc, divinità primordiale della pioggia, è attraverso la logica dei contrari che si complementano e sviluppano le cose materiali e spirituali: la terra è frutto della fusione tra calore ed acqua, dualità generatrice, potere creatore. Questa è la potenza del Messico e dei messicani; un costante equilibrio tra opposti, contemporaneamente condivisi e socialmente accettati. Il giudizio è spesso sospeso, la realtà, anche nella sua scomodità, più semplicemente accettata e vista. Si pensa che fu l’arrivo dei Toltechi, che tra il X ed il XII secolo dominarono gran parte del Messico centrale, a decretare la fine della civilità di Theotihuacan.
Toltechi
La capitale Tolteca Tula, nella zona sud-ovest dell’attuale stato di Hidalgo, ebbe un notevole potere politico durante il periodo compreso tra la caduta della città di Teotihuacan e la fondazione di Tenochtitlán, arrivando a influenzare regioni lontane come la Penisola dello Yucatán, il Nicaragua e l’El Salvador. Con 35000 abitanti, ricca di piramidi e con due campi per il gioco della Pelota (palla, uno sport che aveva forti connotazioni sociali e rituali), Tula per prima umanizzò la figura di Quetzalcóatl, istituendo il re-sacerdote ed innalzando quindi un sovrano al grado di divinità.
La civiltà di Tenochtitlán
Arriviamo alla “Sala di Tenochtitlán” (a più o meno un 1/4 del museo); anche l’ultima grande fase della storia precolombiana, si svolse nella zona della Valle del Messico, nel centro-sud del Paese.
Gli Atzechi cercarono le radici della loro identità nel glorioso passato di Teotihuacán e Tula effettuando scavi nelle rovine di quelle capitali indigene, allo scopo di ricavarne oggetti di valore: maschere, vasi, statuette di pietra; era essenziale mostrare ai popoli vicini che la loro città Tenochtitlán era un centro del potere, da dove avrebbero diretto i loro eserciti conquistatori verso le quattro direzioni dell’universo.
Su una parte della conca lacustre del lago di Texcoco, nel 1325, gli Atzechi fondarono La Città del Mexico-Tenochtitlá. Questo lago fu il concime perfetto per lo sviluppo di quella civiltà che per un po’ di tempo tenne testa ai colonizzatori spagnoli: costruita proprio sopra il lago, era collegata con la terraferma da quattro grandi ponti in legno smontabilii; era dotata di ampi viali e grandi canali che permettevano un continuo rifornimento. Di fatto Tenochtitlà, dominava chiedendo tributo alle altre zone abitate del Messico, che mandavano attraverso strade e canali, le merci di scambio. Fu proprio attraverso le vie del commercio che, partendo dal golfo del Messico, arrivarono anche gli spagnoli e proprio tra i popoli stufi di pagare tributo, i coloni trovarono alleati: Hernán Cortés fu ricevuto da Motecuhzoma Xocoyotzin l’8 novembre 1519.
Nella sala Tenochtitlá del Museo Nazionale di Antrolpologia, si respira un po’ quel concentrato di testosterone, guerriglia ed ingegno, tipico della civiltà Atzeca. Anche nei popoli indigeni del Messico non sono esenti pratiche “patriarcali” e di dominazione maschile, nonostante però se ne rintraccino altri, come la civiltà Maya, più equilibrati dal punto di vista dell’uguaglianza di genere e con ruoli religiosi e di potere occupati anche dalle donne. Sicuramente le possibilità derivanti dall’uso della forza e della violenza, hanno sempre avuto fascino su parte delle popolazioni umane, ma esistono anche molte culture che hanno sviluppato pratiche e valori per prevenire e risolvere i conflitti in modi pacifici, usando la mediazione e la negoziazione.
Uno dei reperti più simbolico di questa civiltà dominante è la Pietra del sole, immagine che ritroviamo in qualsiasi negozio di souvenir. Il monumento scultoreo, un grande altare sacrificale gladiatorio, fu scoperto nel 1790, nella piazza principale della capitale della Nuova Spagna (Città del Messico). Nel disegno del disco si riconosce il volto di Xiuhtecuhtli (dio del fuoco), che emerge dal buco della terra, tenendo in mano una coppia di cuori umani e mostrando la lingua trasformata in coltello sacrificale. È circondato dai quattro soli che hanno preceduto il Quinto Sole: il mondo infatti è stato creato e distrutto quattro volte in passato, e l’era attuale dell’umanità è quella del Quinto Sole.
Lezioni dalle civiltà precolombiane
Abbiamo visitato solo una quarta parte del museo, ma possiamo già trarre lezioni importanti dalle civiltà precolombiane.
Nella società contemporanea, dove il denaro è al centro di tutto e il valore è misurato solo in termini di profitto, è importante riflettere sul fatto che nelle civiltà mesoamericane, come quella Azteca, il cacao e il mais erano le vere forme di valuta. Al contrario, oro, metalli e pietre (come giada, ossidiana, ambra) erano semplicemente materiali utilizzati per adornarsi e aumentare il potere spirituale ed energetico degli individui. L’uso di alimenti organici, soggetti a decomposizione e scadenza, come moneta, ci fa capire che la “ricchezza” non era basata sull’accumulo, ma sul potere di scambio. Il mais e il cacao non potevano essere conservati a lungo, ma il loro potere intrinseco di nutrire e sostenere la vita era amplificato dal fatto che potevano essere utilizzati per generare scambi economici. Il movimento è fondamentale per la sopravvivenza: accumulare ricchezze senza uno scopo specifico crea stagnazione e genera squilibri. Il potere economico dovrebbe dipendere dalla capacità di generare movimento e non dal valore intrinseco di oggetti inanimati.
L’importanza che queste civiltà attribuivano all’utilizzo del proprio corpo come luogo di crescita spirituale e di connessione energetica con il divino, suggerisce l’affermazione di un concetto primordiale di performance. Il corpo era considerato uno strumento attraverso cui si generavano onde ed emozioni, si stabilivano relazioni intangibili e si rafforzavano i poteri personali: indissolubilmente legato allo spirito e alla forza individuale, veniva modificato ritualmente per esprimere l’identità, lo status sociale e la devozione religiosa. Anche se alcune di queste pratiche possono sembrare estreme, erano considerate normali e accettate nella società azteca dell’epoca ed anzi, importante è osservare come tempo e ed energie venivano investite nella cura energetica e spirituale condivisa tra esseri umani.
A questo punto della narrazione arrivano gli spagnoli che interrompono la consecutio temporum delle popolazioni native messicane, portando con sé una serie di azioni e reazioni che sconvolgeranno il normale corso della storia. Per fortuna nel museo non c’è spazio per le atrocità della conquista, e un plauso va alle scelte curatoriali di non voler inserire l’elemento di disturbo, l’elefante nella stanza, di cui tutti siamo a conoscenza, ma che in questo contesto, non ci interessa.
Non ci interessano i manufatti che attestano la progressiva colonizzazione e l’avvelenamento delle origini ancestrali; non ci interessano le lettere dei monaci o i primi “indumenti” costretti sulle pelli nude dei nativi, né le cifre dei morti o degli schiavi. Per questa violenza non c’è spazio nel Museo Nazionale di Antropologia, che vuole forse rimanere il museo della grande potenza indigena per eccellenza. Qui, tra pietre e statuine, tra le divinità animalesche, sentiamo il forte ruggito di una civiltà distrutta ma che non vuole essere vittima, che batte ancora forte sotto le carni del Messico contemporaneo.
Viaggiando tra queste terre adesso, si sente la dualità intrinseca di un popolo che ha una storia recisa, violentata, proibita. L’influenza cattolica ha ovviamente fatto il suo lavoro di conversione e assoggettamento, deprivando molte persone della spiritualità che le ancorava alla terra, agli elementi, alla natura e al vigore umano.
Essere messicano oggi, credo sia un lavoro di riorganizzazione della storia personale e nazionale non indifferente: dover accettare i geni ereditati dall’”infezione” coloniale, farli propri e integrarli, ricordando ed onorando però quel contatto con la potenza ancestrale dei popoli preispanici.
Realmente si tratta di rivendicare la propria miscela, il proprio essere una mezcla di storie, regioni, culture e proprio lì trovare un’identità nuova, molto più contemporanea e avanguardista dell’”ideale di purezza” assassina e asfissiante dei secoli scorsi.
Una miscela di culture
Questa visione è sicuramente la continuità che anche il percorso museale ci regala, al suo secondo piano, dedicato alle culture indigene contemporanee del Messico e al sincretismo religioso. Questa sezione del museo, mette in evidenza la diversità culturale del paese e la ricchezza delle tradizioni che sono state tramandate nel corso dei secoli attraverso costumi tradizionali, artigianato, musica, danze e rituali di varie comunità indigene presenti in tutto il Messico. In questi rituali, troviamo proprio il risultato delle somma algebrica tra religione e folclore; la reinterpretazione materica del legame tra terra e cielo. Maya, Otomì, Zapotechi, Mixtechi, Huichol, Gran Nayar: maschere, rituali di caccia, shamanesimo e stregoneria. Corpi danzanti, corpi colorati, piante e animali sacri, rituali di passaggio, pellegrinaggi. Un substrato mistico e ritualistico che racchiude e prosegue il legame ancestrale tra i popoli e la propria terra.
Luogo dall’energia potentissima; per chi è in grado di affrontare il lungo racconto (tantissimi manufatti, sale molto grandi e minuziosamente raccontate) e pellegrinaggio in una terra piena e densa di storie, il Museo Nazionale di Antropologia rappresenta un punto di riferimento imprescindibile per coloro che desiderano comprendere e immergersi nella cultura del Messico, fuori da stereotipi e semplificazioni.
P.s. Anche due sale dedicate a mostre temporanee, per chi riuscisse a trovare il tempo.