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Qualche settimana fa mi hanno chiesto di scrivere un articolo su un quadro di Hopper,
“ i Nottambuli”, ed io, da brava ricercatrice, mi sono andata ad informare. Perché si sa, o almeno si impara con l’esperienza, che a volte, per capire un quadro fino in fondo, bisogna conoscerne la storia, l’autore e sopratutto il contesto in cui egli lo dipinse. L’arte è certamente qualcosa di universale, trasversale al tempo e allo spazio, e quindi leggibile a distanza di secoli. Le chiavi di lettura però cambiano, insieme a come cambia la società e il mondo, e ciò che prima si poteva vedere chiaramente, forse a distanza di anni, non è più così scontato. Ciò che prima non si considerava, oggi potrebbe rivelarci l’opera in tutt’altra maniera.
Questo è un po’ quello che credo succeda guardando “i Nottamboli” di Hopper, chiusi al bar, a notte fonda, in quella vetrina effetto acquario per pesci, in quella posizione da personaggi osservati.
Credo che in questo quadro, Hopper abbia voluto dare spazio allo spettatore, invitandolo a osservare la scena silenziosa, dettagliata e calma regalataci dalla notte.
Questo spazio concepito per uno spettatore attivo, è forse la chiave di volta, che permette al quadro di essere reinterpretabile nel tempo e di conseguenza di essere senza tempo, immortale, moderno, addirittura molto contemporaneo.
L’opera, realizzata nel 1942, non è immediatamente riconducibile ad un preciso momento storico, bensì sembra che la datazione sia mutabile con il mutare di chi la guarda, a seconda dell’epoca in cui si osserva l’opera.
A mio parere è questa la chiave di lettura, lo spazio dedicato dall’osservatore che Hopper ha voluto creare.
Mi spiego meglio.
Studiando e ricercando informazioni e notizie su “i Nottambuli” di Hopper, ho potuto osservare che molti ne mettono in risalto questi elementi:
“ […] la solitudine, il senso di vuoto di un mondo la cui patina luccicante comincia a cedere […] L’essenza unicamente commerciale, i falsi miti si tolgono la maschera e mostrano una realtà spiazzata, senza validi punti di riferimento, immobilizzata dall’incertezza e dalla mancanza di coscienza.”
Penso che quest’interpretazione sia parziale, ovvero sia un’interpretazione data dal contesto sociale e dalla datazione attribuita all’opera: gli Stati Uniti tra gli anni ’40 e ’50, durante il boom economico che stava ridefinendo gli assetti sociali e culturali nella vita delle persone, una società anche un po’ borghese, dove i i bar della notte vengono visti come luoghi di solitudine, di disperazione e di vuoto esistenziale.
Questo è un po’ è vero e un po’ no.
La prima volta che ho visto questo quadro, senza aver studiato, mi ha trasmesso molta allegria e pace, con il suo contrasto luminoso e la sua quiete notturna.
Sarà che, venendo da una grande metropoli trafficata e rumorosa, la notte è uno dei momenti dove posso assaporare la città con più calma: meno persone in giro, meno macchine, meno rumori, più spazi tra le strade di cui appropriarsi, dove poter stare, sotto il cielo senza stelle della città. La notte ha per me un’accezione molto diversa da chi frequentava i bar negli anni ’40 negli Stati uniti: quando scende il sole la città cambia, le strade si fanno più libere e spigliate.
Non possiamo ignorare come la società si è trasformata in più di mezzo secolo di cambiamenti culturali e sociali, tra cultura Pop e Rock, tra il movimento psichedelico e gli anni 2000. Personalmente, da figlia degli anni ’90, sono cresciuta anche di notte, e con crescere intendo tutte le esperienze “formative” che la notte mi ha regalato. Per me è sempre stato normale uscire di sera, spesso a piedi girando nel quartiere, e il sabato cercare la festa più bella, ballare fino all’alba, girare in motorino o in macchina per trovare l’ultimo bar aperto dove prendere il cornetto o la pizza calda, dove bere l’ultimo bicchiere e fumare l’ultima sigaretta prima che arrivasse l’alba. Forse dagli anni ’70 in poi, la notte a smesso di spaventare chi rimaneva a casa (ma non scordiamoci del movimento jazz, dell’antiproibizionismo e anche dei poeti maledetti, tutti nottambuli per eccellenza) ed è diventata la culla dove molti personaggi della società trovano la pace e il conforto di altri “nottambuli”.
Oggigiorno il quadro di Hopper, mi ricorda tante scene di vita vissuta, e mi fa essere quasi orgogliosa e solidale con gli ultimi tre personaggi, che scambiano quattro chiacchiere mentre il barista pulisce per chiudere una giornata e aprirne un’altra. Quei nottambuli, cercano riposo nel silenzio della compagnia notturna, meditano sulle loro vite osservandole attraverso un bicchiere e si raccolgono come una tribù della notte, che accetta tutti e non giudica nessuno. Non a caso nelle civiltà ancestrali più antiche come quella indiana, la ora e mezza che prece l’alba, è definita Brahmamuhurta, ovvero tempo di Brahma, il tempo migliore per dedicarsi alla meditazione, alla preghiera, allo studio e all’introspezione. In questo spazio temporale le energie sono più acute, intense ma di un’intensità calma, spirituale.
Non vedo solitudine ne vuoto nel quadro di Hopper; ne ho trovato di più tra le strade gentrificate dei quartieri della notte, da quando anche i benpensanti si sono messi a uscire la sera, pretendendo chiarezza e perbenismo dagli angoli più bui della città. Così anche quartieri più antichi e popolari, si sono dovuti trasformare in vetrine da consumo e le aggregazioni spontanee di persone in piazza, si sono dovute riordinare in fila, aspettando il proprio turno e la musica dei tamburi ai lati della strada è stata messa a tacere dalle sirene della polizia. Questo mi spaventa oggi, che la notte venga denaturata dalla sua sacra atmosfera senza tempo, dal suo essere momento di aggregazione per i lupi, e diventi un’altro ingranaggio produttivo alla luce del sole.
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